PRESENTAZIONE


Pur con le radici ben salde tra i fiumi Foglia e Cesano, venni trapiantato a quattro anni a Ivrea. Un luogo non ricchissimo di stemmi monumentali, ma che a carnevale esplode in una moltitudine di emblemi e colori (ispirati ad epoche diverse, con origini storiche o inventati il giorno prima) apparentemente affastellati ma in realtà pienamente inquadrati nel palinsesto di una manifestazione che definire "carnevale delle arance è un insulto". Sarà stata quella visione strabiliante ad attirare la mia attenzione verso gli stemmi? E’ probabile.

Il più antico stemma conservato nella cartellina dei miei disegni di bambino risale ai 7/8 anni. Uno scudo con una vistosissima corona
 


Sarà stato il primo? Chissà. Ma nei giochi di bambino ne ho disegnati tanti altri: come distintivi, sulle mappe del tesoro, sulle bandiere di cento imprese vissute nei boschi, lungo il fiume o tra i cantieri dei condomini in costruzione.

A otto anni realizzai la bandiera per la squadra di calcio della mia classe, la 4a A: bianca con al centro un minuscolo scudetto rosso alla croce di nero… insomma... araldicamente dovevo migliorare.

A sedici anni, gli stemmi, gli emblemi, mutarono segno. Su striscioni, cartelloni, volantini dipinsi e disegnai con tratto grossolano (mai migliorato) l’emblema della mia vocazione, i simboli di nuove imprese, lotte e campagne politiche. L’araldica appariva più lontana, dimenticata, ma era in realtà come sottointesa.

Dopo l’impegno negli anni dell’adolescenza, all’università mi sono rifatto e l’araldica è riemersa nella Goliardia. Luogo ove la parodia del potere regna sovrana, con tutti i simboli del caso.

Come un novello vescovo, divenuto nobile dell’urbinate Maximus Ordo Torricinorum dovetti dotarmi di uno stemma, in realtà non aspettavo una scusa migliore! Il nome goliardico Bubo Laboriosus e il felice incontro a Portobello Road con una matrice tipografica con un gufo tra due rami d’alloro portò, nell’estate del 1990, alla realizzazione del mio stemma. I colori sono quelli del comune di Ravenna, scelta come patria cromatico-araldica perché all’epoca lì risiedevo con i miei.

Il motto non è in latino, ma in un italiano vagamente volgare. Riprende un passo del I Canto del Purgatorio: “Or ti piaccia gradir la sua venuta: / libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta”. Quella libertà cercata era il sottotitolo di una rivista universitaria del 1925 pubblicata dall’Unione Goliardica per la Libertà. Per farla breve mi piacque e sta lì da allora.

In molti anni di università transitai spesso sotto due imponenti stemmi montefeltrischi collocati sopra il portale del rettorato. Fu lì, su quella soglia, che l’interesse per l’araldica mutò forma. Insomma, le guide turistiche e gli studi storici affermavano una cosa, ma quegli stemmi da anni urlavano ben altro. Inascoltati da passanti distratti, da storici e storici dell’arte impegnati in cose più serie e da araldisti latitanti. Senza tirarla oltre per le lunghe lo studio di quei manufatti si è allargato a macchia d’olio, di quell’olio che impregna le fibre e che non va più via a chi si innamora dell'araldica e osa persino definirsi araldista.

In questa nuova veste ho pubblicato articoli su diverse riviste scientifiche, di araldica, di storia e di archeologia. Ho collaborato alla realizzazione di una sala araldica in un Museo, a Piandimeleto; ho poi partecipato alla ricerca promossa dalla Regione Marche per lo studio dell’araldica comunale marchigiana, sotto la guida di Alessandro Savorelli, occupandomi della provincia di Pesaro e Urbino.

L’imprinting dell’araldica viva, magari imperfetta ma sentita, vissuta così come la percepii a Ivrea da bambino, il sottinteso di quel gioco serio che è la Goliardia, e il rigore che si deve a se stessi e agli altri nella proposizione di nuove interpretazioni storiche documentate o avanzate come ipotesi, appartengono al mio modo un po’ originale, forse, di vivere l’araldica. Un modo a volte difficile da spiegare a chi indugia a credere che l'araldica sia cosa da nostalgici dell’Ancien Régime.


 

Qualcosa di più sul mio stemma

Questo stemma, realizzato ed adottato nei primi anni ’90 del secolo scorso, ha ragioni antiche ed una storia recente.
1) Le ragioni antiche attengono al fondamento, diciamo pure al pretesto, della sua adozione. Correva l’anno 1651 e lo Studio Pubblico della città di Urbino decise che era giunto il momento di incrementare le iscrizioni di studenti forestieri. Tra gli altri provvedimenti adottati decise di concedere ai propri studenti forestieri (non a quelli urbinati…) alcuni di quei privilegi, spesso solo formali, che nella maggior parte delle altre Università della penisola venivano via via erosi o semplicemente abrogati. Così il 18 ottobre 1651 il Collegio dei Dottori dello Studio Pubblico di Urbino approvò le “Pretenzioni delli Signori scolari forestieri”: esenzioni fiscali, privilegio del foro, diritto al porto di armi ed altri privilegi chiaramente poco attinenti allo scopo dello studio e della ricerca. Gli studenti avevano chiesto, ed ottennero, anche di eleggere un loro capo, ed un consigliere che avrebbe dovuto rappresentare i loro bisogni allo Studio. Il Consigliere mantenne tale nome, ma per il capo gli studenti, potendo scegliere tra Priore, Primario ecc., optarono per Principe: il “Principe de’ Signori Studenti”. Con la medesima disposizione del 18 ottobre 1651 vennero stabiliti particolari privilegi e prerogative per il Principe e tra l’altro venne deciso “che debba detto Capo da eleggersi alzar l’arma di sua casa e collocarla nelle scuole”.

L'Università di Urbino avrebbe potuto avere anch’essa il suo piccolo repertorio di stemmi studenteschi, qualcosa di analogo a quanto si può ammirate a Bologna e a Padova. Ma l’Ateneo non ebbe una sede stabile se non due secoli dopo, e comunque la figura del Principe non sembra aver varcato la soglia del XVIII secolo. La carica del Principe, ben distinta da quella “sindacale” del Consigliere, ha certamente avuto eredi istituzionali ed ideali: il Pontefice che sovrintendeva le cerimonie goliardiche tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento e poi il Duca del Maximus Ordo Torricinorum, l'Ordine goliardico sorto nel 1946 dopo il ventennio fascista durante il quale tutte le attività studentesche erano ricondotte al G.U.F.

2) La storia recente. L’antica disposizione sullo stemma del Principe è stata ripresa e mantenuta dalla moderna Goliardia che è interprete e custode della tradizione universitaria urbinate. In questo contesto è stato realizzato il mio stemma. Prendendo a modello un “carattere” tipografico acquistato a Londra al mercato di Portobello nell’estate del 1990, e componendo quel disegno con gli smalti della mia città di residenza (Ravenna), realizzai il mio stemma: partito d’oro e di rosso, a due rami d’alloro posti a corona e racchiudenti un gufo posato, il tutto dall’uno all’altro. Quando nella primavera del 1993 divenni capo supremo della Goliardia dell’Università di Urbino, col titolo di Duca del Maximus Ordo Torricinorum, quello stemma assunse ancora maggiore rilevanza pubblica. Da allora questo stemma mi accompagna, non solo nelle attività goliardiche, ma in molte altre occasioni. E’, a tutti gli effetti, il mio stemma araldico, la mia arma. In alcuni casi la rappresento timbrata dal berretto tradizionale degli studenti universitari italiani (adottato nel 1892). Il colore blu è quello della facoltà di Giurisprudenza e la piuma di struzzo bianca è quella confacente i miei titoli… goliardici.

Una nota in più, sul motto "Libertà vo cercando". Questo motto venne assunto alcuni mesi dopo l'assunzione dello stemma, per via di alcune vicende (non politiche) interne al M.O.T. Esso si rifà al sottotitolo di una rivista antifascista pubblicata da ambienti repubblicani, capitanati da Oronzo Reale, nel difficile anno 1925, per contrastare il progetto del regime di fascistizzare gli atenei. Il titolo e il sottotitolo della rivista erano "Il Goliardo. Libertà vo cercando che è si cara..." e riprendevano i celebri versi di Dante nel 1° Canto del Purgatorio

"Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch'è sì cara,

come sa chi per lei vita rifiuta." 72