mercoledì 13 maggio 2015

IL CURIOSO CASO DELLO STEMMA DELLA CHIESA NEL PALAZZO DELLA RAGIONE DI SANT'ANGELO IN VADO

Nell’attuale piazza Pio XII di Sant’Angelo in Vado si affaccia il cosiddetto Palazzo della ragione, edificato nel 1397 (1), antica sede del comune (rimarrà tale fino al 1838) nel quale è inglobata la torre civica eretta nel 1576.

Fotografia di Elio Rossi
Sant’Angelo in Vado fu a lungo il centro principale dell’antica provincia pontificia di Massa Trabaria e quando venne edificato il palazzo era soggetto al dominio del Brancaleoni che avevano ottenuto il riconoscimento formale del loro dominio attraverso il vicariato apostolico in temporalibus, concesso due anni prima, nel 1395, ai fratelli Pierfrancesco e Gentile e al loro nipote Galeotto del fu Niccolò Filippo (2).
La facciata dell’edificio è caratterizzata da un loggiato di cinque archi gotici e nell’ordine superiore, delimitato da un cordolo, da cinque finestre di fattezze tardogotico. È inoltre decorato con tre bassorilievi scolpiti con insegne del potere pubblico:

a destra l’Arcangelo Michele con lo scudo crociato, emblema del Comune;


al centro, in posizione d’onore, lo stemma della Chiesa, ovvero dell’autorità sovrana della Massa Trabaria e del comune; 


a sinistra lo stemma dei Brancaleoni di Casteldurante, vicari in temporalibus, costituito da uno scudo col leone attraversato dalla banda, e munito di un capo d’Angiò.


La superficie dei tre manufatti è parzialmente coperta da una patina giallastra che non sembra potersi ricondurre ad uno smalto araldico: tale patina è presente nel campo dello scudo dell’Arcangelo e in quello dell’arma dei Brancaleoni che dovevano essere bianchi. È però piuttosto improbabile che queste insegne araldiche siano state monocrome e sarebbe auspicabile un’indagine tecnica accurata. Questa potrebbe anche chiarire l’origine della presenza di un colore rossiccio in alcune parti dei bassorilievi come le ginocchiere dell’armatura e le piume esterne delle ali dell’Arcangelo o di altre che certamente dovevano essere d’oro o gialle come i gigli del capo d’Angiò.
Con ogni probabilità queste tre insegne dovevano essere colorate in modo adeguato. L’arcangelo poteva avere colori naturalistici, ma lo scudo doveva essere bianco con la croce rossa. L’arme della Chiesa doveva avere il campo rosso, caricato di figure bianche (la croce accantonata da quattro coppie di chiavi legate e incrociate in decusse) come nella celebre miniatura che raffigura l’Albornoz, 


la stessa che si ritrova in molti luoghi soggetti al papato, come a Gubbio nel Palazzo dei Consoli (dove la composizione è in qualche modo analoga, con l'arma sovrana al centro e quella comunale in seconda posizione alla sua destra); 


l’arma dei Brancaleoni era certamente munita degli stessi smalti di quella recentemente riscoperta nella chiesa di San Donato e risalente al 1351: d’argento/bianco al leone d’azzurro sul tutto la banda diminuita di rosso, con l’aggiunta del capo d’Angiò che era d’azzurro al lambello di rosso con gigli d’oro/giallo tra i pendenti. Questo capo era insegna della costante adesione al partito guelfo di questo ramo dell’articolata stirpe dei Brancaleoni (3). Era un’aggiunta all’arme, che rimaneva per così dire separata: poteva essere presente o omessa secondo le necessità politiche, artistiche o d’altra natura anche perché non fu quasi mai una vera e propria concessione ma un’assunzione spontanea dei fautori della causa e dei suoi campioni Carlo I e soprattutto Roberto di cui rimane lo stemma nella porta di Macerata Feltria. Lo stemma qui collocato può essere considerato comune a tutti e tre i soggetti titolari del vicariato apostolico in temporalibus nel periodo di edificazione del palazzo - sempre che gli stemmi siano stati collocati in quel momento (4) - come dimostrano tutti gli altri documenti araldici conosciuti, tra gli altri il citato stemma di S. Donato (1351) 

L'originale è rivolto per ragioni di euritmia

e quello del sepolcro di Bartolomeo Brancaleoni nella chiesa di San Francesco a Mercatello sul Metauro (1425).

L'originale è rivolto per ragioni di euritmia
La bellezza dell’insieme della semplice rappresentazione araldica di Sant’Angelo in Vado, se non unica certamente rara nel panorama locale, colpisce l’osservatore, crediamo anche quello non esperto di araldica. Tuttavia può sfuggire ai più, e così pare sia avvenuto per decenni, l’anomala composizione dello stemma centrale: quello della Chiesa.
Nel descriverlo, abbiamo evocato una croce accantonata dalle chiavi di San Pietro, ma qui una croce non c’è, salvo volerla identificare con una croce di Sant’Antonio, il cosiddetto Tau o croce commissa che sembra qui rappresentata con la traversa coincidente col bordo superiore dello scudo.



La verità è che ci troviamo di fronte a uno stemma montato male. Si noterà che il manufatto è realizzato su due lastre, ebbene quella superiore è stata montata al rovescio. Osservando il bordo dello scudo si rileva anche una leggera, ma percepibile, differenza di larghezza nel punto di giunzione. Girando la lastra superiore la traversa della croce risulta perfettamente collocata, al centro e la segnalata differenza di larghezza viene meno. Anche le chiavi risultano ora opportunamente collocate.

Quanto e perché venne montato in questo modo lo stemma della Chiesa? Non certo all’epoca dell’originaria collocazione (se avvenuta sul finire del Trecento), si aveva allora l’esatta cognizione di quale fosse lo stemma dello stato del papa. E allora?
Conducendo una ricerca sull’araldica dei Brancaleoni, presso l’Archivio della Soprintendenza ai Beni Architettonici delle Marche, mi sono imbattuto in una lettera del Soprintendente pro tempore con la quale si ingiungeva l’immediato ripristino del rivestimento in mattoni della facciata del palazzo nella parte soprastante il portico, smantellata nel 1949 a causa di lavori di ristrutturazione necessari dopo i danni causati dalla Seconda Guerra Mondiale (5). Sull’argomento, nello specifico, non è stato possibile rintracciare alcun documento nell’archivio del Genio Civile ora depositato presso l’Archivio di Stato di Pesaro.
Fu in occasione di quei lavori, che, smontato il rivestimento in mattoni vennero ovviamente tolti anche gli stemmi. L’imperizia del muratore nel momento del ripristino comportò, di tutta evidenza, il collocamento errato della lastra superiore dello stemma del papato.
Conferma questa ipotesi anche la fotografia pubblicata da Locchi nel 1934 (7). Si rileva, non solo la diversa forma delle finestre, ma anche la diversa collocazione degli stemmi. A differenza di oggi quello della Chiesa era a contatto con la cornice delle finestre.


Non sapremmo se chiedere il ripristino o lasciare questa singolarità alla descrizione delle guide turistiche ora adeguatamente informate.



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1) V. LANCIARINI, Il Tiferno Mataurense e la Provincia di Massa Trabaria, vol. I, Roma 1912, p. 415.
2) E. PERINI, La signoria dei Brancaleoni di Casteldurante, Firenze 2008, p. 59.
3) Quello di Casteldurante era un ramo di forte tradizione guelfa, indotta verosimilmente anche dalla necessità di contrastare la spinta espansionistica dei Montefeltro conti di Urbino campioni del partito ghibellino. Altri rami coevi della famiglia dei Brancaleoni furono Piobbico, Rocca e Castel Pecorari, tutti ghibellini, A. TARDUCCI, Piobbico e i Brancaleoni, Cagli 1897.
4) Curiosamente non li ricorda Costanzo Felici, nel suo Origine de signori Brancaleoni scritta per me Costanzo Felici a messer Francesco Sansovino, scritto nel 1582, pubblicato in D. BISCHI, I Brancaleoni di Piobbico in Costanzo Felici e Francesco Sansovino, Rimini 1982, p. 61.
(5) Soprintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici delle Marche, Ancona, Archivio Storico, M-PS-57-378, Sant’Angelo in Vado, Palazzo della Ragione, lettera del 31.08.1949.
6) Archivio di Stato di Pesaro, Genio Civile, nn. 780 e 5029.
7) O.T. LOCCHI, La Provincia di Pesaro ed Urbino, Roma, 1934, p. 783.